PREMESSA: A febbraio ho ricevuto, attraverso uno dei miei editori, una mail del direttore del Salone di Torino Nicola Lagioia, contenente 5 domande che, francamente, ho trovato stucchevoli. Riporto la mail per contestualizzare quello che ho inviato come "contributo". Spoiler: non è esattamente una risposta ma è una riflessione piuttosto lunga. Nel caso vogliate prendervi il tempo di leggerla con calma, potete scaricarla qui in un pdf bellamente illustrato: https://drive.google.com/open…

Ecco la Mail:
"UN GIORNO, TUTTO QUESTO

Una delle più importanti qualità del Salone Internazionale del Libro è il suo essere in perenne contatto con le menti più affascinanti e preparate della nostra epoca: che siano narratori, saggisti o studiosi, oppure artisti, disegnatori, musicisti o registi, il contatto, attraverso i loro editori, è attivo sin dalla prima edizione, è durevole e continuo, e permette una capacità di innesco pressoché unica all’interno dello scenario degli avvenimenti culturali nazionali e internazionali.
Per l’edizione 2018 chiederemo loro, che siano fisicamente presenti o meno nelle date del Salone, di rispondere a 5 domande che abbiamo predisposto guardando ai grandi temi che caratterizzano il nostro tempo, a partire da quelli più intimi, legati all’io e all’individualità, passando quindi a questioni che concernono i momenti aggregativi fra queste singolarità sino ad arrivare a problemi di scenario globale. Le risposte potranno arrivare nella forma espressiva preferita dai singoli contributori, attraverso un testo, breve o corposo, una foto, un disegno, una traccia audio o un filmato, e potranno riguardare una come tutte le domande.
Le risposte verranno divulgate in diverse forme nei giorni del Salone (10-14 maggio) e attraverseranno l’intero programma di questa edizione, alimentando il dibattito pubblico ed esprimendosi attraverso lectio, mostre, lezioni, spettacoli, performance artistiche e in qualunque altra forma si manifesteranno.
Queste le domande elaborate dal gruppo di lavoro del Salone:

• Chi voglio essere?
La nostra identità è in continua costruzione. Nell'epoca del culto di sé, chi aspiriamo a essere? Che rapporto c'è oggi tra l'essere se stessi, il conoscere se stessi e il diventare se stessi?

Io non sono quello che faccio. Probabilmente, al di là della mia cerchia stretta di conoscenti, quando non ci sarò, sarò quello che ho fatto: una lista di risultati di Google. Una voce di Wikipedia. I Like sul mio profilo facebook. Una bibliografia…

• Perché mi serve un nemico?
I confini ci proteggono oppure ci impediscono di incontrarci e cooperare? Come e perché li tracciamo? Abbiamo bisogno di costruirci un nemico per poter sperare di non averne?
Per credere di sapere chi non sono.

• A chi appartiene il mondo?
Tra cent’anni la nostra Terra potrebbe essere meno accogliente di oggi. La forbice tra ricchi e poveri si allarga. Il lavoro si trasforma e può ridursi. Milioni di persone sono costrette a lasciare la propria casa. Di chi è il mondo? Chi deve prendersene cura?

• Dove mi portano spiritualità e scienza?
Scienza e religione hanno dato forma alla nostra storia e al nostro pensiero. Ma sono state usate anche come strumenti di oppressione. C’è oggi una promessa di cambiamento e di futuro nella spiritualità delle religioni, nel rigore nelle scienze? O altrove?

• Che cosa voglio dall’arte: libertà o rivoluzione?
La creazione artistica può bastare a se stessa? O deve porsi l’obiettivo di cambiare le cose? Libertà o rivoluzione: cos'è l'arte, e che cosa deve e può dare a tutti noi?

Nicola Lagioia"

Ho risposto come meglio credevo. Continuo a non avere idea di cosa ne faranno.
A seguito di un articolo di Annamaria Testa su L’Internazionale
(https://www.internazionale.it/…/2018/03/19/cinque-domande-t… ) -visto che ha deciso estendere le domande che considero malposte al resto dell'umanità-, ho deciso di condividere il testo che ho scritto suddividendolo qui in 5 punti.



1. PERCHÈ NO?

Una Lettera sull’importanza delle domande mal poste

e una Lectio sullo sprecare bene il tempo in cerca di risposte.


Non inizierò dicendo “Non per polemizzare” essendo quello che andrò a fare. E non crediate che con questa mia non risponda a tutte le domande poste dalla mail firmata Nicola Lagioia: forse non lo farò esattamente nella forma e nell’ordine richiesto, ma questo è.

Sarò pedante ma cercherò di limitare i danni e, per quanto polemico, vi assicuro che vi voglio comunque bene.


Sicuramente mi riconosco nella storiella ebraica che racconta di un Gentile che chiede a un Rabbino “perché voi ebrei rispondete sempre ad una domanda con un’altra domanda?”. E il Rabbino: “Perché no?”.


Ci sono domande che suscitano un certo disagio quando vengono poste (tutte le domande dovrebbero metterci un po’ a disagio. I dubbi sono destabilizzanti quanto utili).

Ma c’è differenza tra domande che mettono a disagio perché colpiscono in profondità o perché pongono veri dubbi e quelle, invece, mal poste.

Sono domande mal poste quelle che danno l’impressione di non aver richiesto uno sforzo particolare nell’essere elaborate però pretendono che quelli ai quali sono state fatte lo facciano per rispondere in modo sensato. Se fossimo a scuola, probabilmente un professore penserebbe a degli studenti pigri e starebbe al suo grado di pazienza e senso del dovere decidere di rispondere o meno (“Maledizione! Se aveste letto il brano che vi avevo dato non perderemmo tempo con queste stupide domande!”).

Le domande mal poste non tengono conto del contesto e dei soggetti ai quali vengono poste e -probabilmente- pongono dubbi su che tipo di risposte ci si aspetti.

Le vostre appartengono a quest’ultima categoria.

Mi spiace dirlo, ma sono domande che -per come sono state poste (domande profonde in forma di titolo di tema da svolgere in una mail generica, indirizzata un po’ a tutti i produttori di contenuti) - risultano irritanti.

È un problema di forma (la forma delle domande mal poste) che si riflette -necessariamente- sul contenuto.


La forma è quella tipica di un’epoca dominata dai Social: usare gli User Generated Contents (invitando alla partecipazione attraverso una call), dove l’ego degli users è appagato e decide di lavorare gratuitamente per riempire uno spazio vuoto di chi crede -molto probabilmente in buona fede- di offrire uno “spazio democratico e pluralista” e di dare voce a chiunque (non è vero, ve ne dò atto: in questo caso vi siete limitati a “narratori, saggisti o studiosi, oppure artisti, disegnatori, musicisti o registi…”).

È un atteggiamento assolutamente Mainstream (e uso questi termini insopportabili proprio perché fanno parte del gergo della comunicazione “creativa”Qualcosa-Punto-Zero-).

Ma so di sembrare inutilmente polemico. Partiamo allora dalla forma:


-Hanno la forma delle stesse domande che si pongono agli scolari delle medie per i temi di italiano. Se le aveste poste agli studenti, avreste avuto in risposta, appunto, dei temini delle medie.

-Hanno la forma delle domande di Marzullo: a domande profonde ma poste in un certo contesto, si può solo rispondere in modo fintamente profondo, con frasi e citazioni ad effetto per 10 secondi. “Non dire niente ma dirlo bene e in fretta” è più appagante di un dibattito e si va a letto più leggeri.


-Hanno la forma delle domande innocue che pongono le linee aeree nei loro contest online: “Dicci chi vuoi essere e ti regaliamo il viaggio dei tuoi sogni!”.


Ma resta il fatto che le avete poste in questa forma a persone che appartengono a una schiera di “creatori di contenuti” (a prescindere dall’essere user di qualcosa) che solitamente prendono sul serio i pensieri.

Quindi la mia seconda domanda è: Me lo state chiedendo sul serio? Le ricordo:

“Chi voglio essere?Perché mi serve un nemico? A chi appartiene il mondo? Dove mi portano spiritualità e scienza? Che cosa voglio dall’arte: libertà o rivoluzione?”


State chiedendo cose importanti; cose per le quali si sono spesi da secoli fiumi di parole e opere di filosofi, letterati, pensatori, artisti…

Quel tipo di questioni che -se poste seriamente- uno deve prendersi tempo per rispondere per dare una parvenza di risposta sensata (o tacere, se è il caso).

Oppure sono poste da uno che si sballa in compagnia e si chiede il perché dell’universo sotto un cielo di stelle.

Oppure sono quelle poste ad una tavola rotonda di autori che guarderanno con disprezzo l’intervistatore, accorgendosi che per porre domande del genere non ha letto niente di loro.

Oppure sono poste da un blogger che le spedisce a mezzo mondo. Tanto varrebbe che fossero seguite da risposte multiple tra le quali scegliere come questionario a fini statistici: L’80% degli intervistati è convinto di essere un ornitorinco, il 40% crede che il mondo appartenga alla Spectre, il 50% vuole dall’arte libertà E rivoluzione e il resto solo sesso facile…


Ricordate: sto ponendo un problema di forma che si riflette sulla sostanza. Vi chiedo quindi di trattenere l’irritazione ancora per un po’, se userò una forma non troppo diplomatica per dirvi quello che sento…

Le vostre domande sono solo il punto di partenza per una di quelle che si definiscono “riflessioni più ampie”.


La scelta di questa forma (in questo caso da parte del “Gruppo di lavoro del Salone”) la fa sembrare frutto di una serie di “non-scelte”.

È una forma di abdicazione al pensiero, alla critica, alla possibilità di prendere una posizione, anche provocatoria, che sta prendendo sempre più piede. Nei casi peggiori -e non è questo- mi sembra il sintomo di un disprezzo per tutto ciò che sembri troppo “intellettuale” (quindi, per forza, noioso e snob) in nome di una comunicazione facile e innocua.

Da parte mia non potrei definirmi un intellettuale o un libero pensatore: ho troppa ammirazione per quelli che considero tali. Credo mi piacerebbe. Sta di fatto che se mi si pone una domanda in termini che mi danno da pensare, mi sento abbastanza libero di rispondere come meglio credo.


Le domande poste male, in modo innocuo, hanno la funzione di evitare conflitti e discussioni che -nell’ottica dell’organizzazione di eventi- non suonano bene agli sponsor pubblici o privati che siano o all’immagine pubblica. Il fatto che tutto sembri diretto a una fantomatica “comunità culturale” alla quale crediamo, per professione, aspirazione o vocazione di appartenere non le rende (e non ci rende) automaticamente interessanti.


Ipotizzo che alcuni non risponderanno, altri diranno cose più o meno sincere e magari interessanti. Altri risponderanno creativamente, cercando di distinguersi dagli altri e difendendo la propria originalità.

Sono sicuro che ci avete già pensato. Probabilmente delle risposte, a seconda della forma che avranno, ne farete un’installazione più o meno variopinta.

Un muro graficamente corretto, dove la globalità delle risposte indistinguibili darà una sensazione di pluralità e esaltazione della diversità.

Il font giusto sul fondo giusto che coniughi eleganza e dinamicità.

Un’opera che rappresenti un felice caos creativo che nelle intenzioni dovrebbe farci sentire tutti parte di un movimento positivo e variopinto.

Molti video in loop e magari una video installazione…

È chiaro che una cosa del genere “funzionerà” (e qui dovremmo chiederci per cosa: funzionerà come decorazione o altro?) in un contesto come quello del Salone.


E questo lo pongo come un problema per una mia sensazione sempre più forte, frequentando questo genere di eventi da un po’, come invitato o semplice visitatore: la sensazione è quella (sto parlando in generale) di mostre/mercato, di vetrine in fiere istituzionali dove -visto che molti grandi editori considerano i libri alla stregua di saponette- si debba spettacolarizzare tutto, dove tutto è un “evento” ugualmente imperdibile e costruito a misura di selfie. In questo caso la cultura viene usata come “fondale” ideale e nobilitante, concettualmente e fisicamente.


Vista la moltiplicazione di festival, fiere e saloni del libro per l’Italia, sproporzionata rispetto all’effettivo numeri di lettori mi chiedo se sia il modo migliore per raggiungerli e non -semplicemente- vantaggioso per gli organizzatori stessi e chi gestisce le strutture.


La mia non è una visione romantica dell’editoria; semplicemente credo che i lettori non siano semplicemente “compratori di libri” e i libri, pur essendo oggetti -tra le altre cose- commerciabili, sono molto più complessi per essere lasciati in balìa delle strategie di marketing usate per qualsiasi altro prodotto.

Intendo dire che spesso le cose più interessanti se ne stanno fuori da questi mega-contenitori di eventi e il lavoro duro -a parte quello di noi “creatori del contenuto-libro”- è quello di creare nuovi lettori attraverso la scuola, le biblioteche, la promozione alla lettura e altre iniziative in tal senso.


Quelli che danno forma al contenitore-libro e lo promuovono (Editori, Saloni) non sono soggetti secondari ma sempre più spesso si lasciano “trasportare” da logiche di marketing estranee (mode, “ottimizzazione” del lavoro attraverso riduzione della professionalità e qualità dei libri, saturazione del mercato con instant book a breve scadenza, eventi speciali, eventi stellari, apericene, cookingshow, ecc.).


Stiamo parlando di un’industria che ha a che fare con la cultura e che -a parte quelli che ci credono ancora e lottano a fatica per mantenere questo legame- sembra aver dimenticato il senso della propria esistenza prendendo per buono il modello dei fast food, accettando l’ignoranza come un dato ineluttabile e perfino come una possibile fonte di ricavi (è più facile vendere cose mediocri -talent show, junk food, libri brutti- a chi non ha strumenti culturali sufficienti per giudicarle). Gli ignoranti sono innegabilmente un mercato più vasto ma non mi voglio rassegnare all’idea che -nel momento in cui abbiamo a che fare con la cultura- non si debba fare uno sforzo per migliorare noi stessi e il prossimo.


Che senso ha porre le vostre domande a noi allora, se ci muoviamo in un mondo che sembra aver rinunciato a porle a se stesso?

Il mio timore è che le risposte alle vostre domande, qualunque esse siano, più o meno creative, non “alimenteranno il dibattito pubblico” come avete scritto: sarebbe presuntuoso pretendere questo senza pagarne il giusto prezzo (e non sto parlando in termini economici).


Siccome tirate in ballo dei temi seri in un modo che considero poco serio, invece di inviarvi qualche aforisma spiritoso, una tavola illustrata o un video animato (questo per me è lavoro) cercherò di rispondervi molto seriamente (e questo mi richiede uno sforzo, come qualsiasi forma di pensiero dovrebbe richiedere): qualunque autore, pensatore, artista che avesse una risposta valida alle vostre domande, “utile” ad alimentare un qualsiasi dibattito, a ispirare il prossimo o a migliorare il mondo, di sicuro ci riflette da anni e l’ha già inserita nella sua opera o lo farà in futuro, perché è nella qualità del nostro lavoro che chi ne fruisce può trovare -se mai ce ne sono- degli spunti utili di riflessione.

Le risposte a certe questioni -solitamente- non sono mai interessanti quanto delle domande ben poste, che ci conducano ad avanzare personalmente in qualche modo.

Se invece quello che cercate sono delle risposte brillanti e appaganti, di quelle che stanno bene stampate sul muro, di quelle che uno legge distrattamente, senza riflettere più di tanto, distratto dal suono o dalla costruzione perfetta, è infinitamente più semplice cercare su Google.


Se davvero volete riempire il Salone di qualcosa di utile (sono serio e propositivo qui), riempite i muri di domande. Seminate il dubbio. Fate in modo che la gente si fermi a riflettere. Cercate domande di quelle vere e pesanti, che sembrano semplici e poi rimbombano nell’animo. Ponete domande (all’apparenza veramente) leggere come quelle dei bambini: quelle delle quali conosciamo benissimo le risposte e ce ne vergogniamo, perché ci pongono di fronte alla nostra coscienza e responsabilità…


Per quanto riguarda le risposte -in quanto Salone del Libro- se ci riflettete per un momento ce le avete nella vostra stessa definizione: libri.

Consigliate libri da leggere a chi si pone delle domande. Male/bene che vada si porrà altre domande.


E non starò qui a dilungarmi sulla capacità dei libri nell’aiutare l’umanità.



2. SULLO SPRECARE BENE IL TEMPO IN CERCA DI RISPOSTE


E qui arrivo ad un altro punto importante: le risposte di Google e i loro effetti collaterali sull’intelligenza.


Una premessa: Quando ero ragazzino ero un divoratore di musica. Mi recavo spesso in quella che considero la mia seconda casa: Barcellona. In Carrer Nou de la Rambla si trovavano negozi di dischi incredibili a prezzi abbordabili. Mi piaceva passare intere giornate a cercare dischi da Castello o Revolver.

Chiunque abbia amato gli LP sa di cosa sto parlando: il piacere di sfogliare queste buste quadrate e con illustrazioni incredibili alla ricerca di indizi.

Ogni tanto, ebbro di così tante possibilità a fronte di budget risicati, mi dicevo quanto sarebbe stato bello avere il modo di riconoscere a colpo d’occhio il disco di qualche sconosciuto che mi sarebbe potuto piacere. Una specie di “evidenziatore” che magicamente mettesse in evidenza solo i punti di interesse. Faccio notare che stiamo parlando dell’82. Solo 10 anni dopo ebbi il mio primo Mac. Un Classic.

Trovai subito che sarebbe stato bello avere nei miei occhiali una funzione tipo quella di “FIND FILE” quando non trovavo qualcosa.


Ora ci siamo arrivati e mi sono accorto delle conseguenze nefaste che questo ha sul nostro modo di pensare.

L’effetto collaterale degli algoritmi di Google è la progressiva scomparsa della serendipity.

Se ricordate, all’inizio, Google come gli altri motori di ricerca offrivano le risposte più varie, senza filtro. Uno poneva una domanda e finiva per perdersi nei meandri del web, passando da un hyperlink all’altro e questo portava alla scoperta di cose incredibili che mai ci si sarebbe aspettati. Questo dava un nuovo senso al concetto di “Esplorazione” e “Ricerca” anche per i sedentari come me che fino ad allora si limitavano a leggere libri di Kipling… (non è vero, faticavo pure a leggere Kipling: mi limitavo ad esplorare le illustrazioni dei suoi libri).


In nome del “non perdere tempo” le cose sono cambiate: ora digitiamo qualcosa e otteniamo risposte piuttosto precise. Un miracolo. (Qualsiasi cosa che ci viene spacciata come “non perdita di tempo” ci sembra un progresso).







NOTA: Essendo una lettera in forma di lectio, mi scuserete se ora mi permetto di fare un piccolo excursus didattico ma mi serve per spiegare come i miei dubbi siano cresciuti in parallelo agli aggiornamenti tecnologici.



3. GOOGLE & APPLE: RISPOSTE CHE CREANO DOMANDE


Partiamo dalla prima volta che mi accorsi che, digitando la stessa richiesta, due persone su due computer diversi ottenevano risposte differenti. Fu questa la svolta importante.

Perché?

Spoiler didattico: La risposta è negli algoritmi che, per funzionare bene, sono affamati di informazioni: le vostre. Qualsiasi scelta fate al computer (se non prendete precauzioni particolari) viene registrata attraverso i cookies: si chiama “profilazione”.

La stessa cosa che fanno le tessere dei supermercati.


Sembra inquietante (e lo è) ma la cosa geniale è che ci hanno fatto credere che sia esattamente quello di cui avevamo bisogno: non perdere tempo.


Grazie alla registrazione dei nostri gusti e delle nostre preferenze, Google ci dà le risposte che ci aspettiamo, Itunes ci suggerisce musica che già conosciamo, Amazon ci propone articoli che abbiamo già cercato e Facebook ci mostra solo i messaggi dei nostri amici (chiaramente filtrati secondo le esigenze degli inserzionisti).

Tutto questo è molto rassicurante. Come diceva Munari “alla gente piace riconoscere più che conoscere” e tutto questo è assolutamente funzionale alle strategie di marketing delle aziende.


Altro esempio notevole notevole del “tranquillo, sappiamo noi quello di cui hai bisogno” è la Apple.

Il sistema operativo Apple è assolutamente chiuso. Gli apparecchi col design così amato sono costosissimi e negli anni hanno subito una sorte di involuzione (Downgrade): La Apple ha semplificato al massimo il suo hardware decidendo che al pubblico dovesse bastare solo quello che offriva. Ed è fondamentalmente vero. Il software ha seguito la stessa strada, limitando tutte le funzioni che potessero complicarci la vita (o renderla più interessante, dal mio punto di vista).


L’ultimo esempio di “involuzione creativa” è quello di un aggiornamento rilasciato da Apple per ovviare a un problema nelle durata della batteria: rallentare e limitare le funzioni di un costosissimo smartphone facendolo diventare meno “smart” per risparmiare energia.


In compenso, attraverso il suo Store, ci ha reso dipendenti da una quantità di app perlopiù inutili ma a un prezzo contenuto (facendo pagare sia gli sviluppatori che i compratori e senza pagare le tasse). In effetti la creatività di Apple è sempre più quella finanziaria. La famosa frase di Steve Jobs “Stay Hungry, Stay Foolish” mi è sempre suonata come “Stay Greedy”, da parte di una Apple che, in nome del “Think different”, ha reso tutti tecno-dipendenti dal suo modello di pensiero finendo per diventare lo stesso Big Brother contro il quale si scagliava nel 1984. Lo dico, appunto, da finanziatore trentennale / amante masochista di questa impresa…





FINE DELL’EXCURSUS.




4. ALLA RICERCA DEL TEMPO DA PERDERE

(Seneca e i gattini)


Potrei andare avanti con parecchi altri esempi rispetto all’utilizzo di risposte piacevolmente “narcotizzanti” che ci hanno reso funzionali a questo sistema e -e qui sta la parte veramente geniale- felicemente sottomessi.

Soluzioni apparentemente convenienti che portano a grandi cambiamenti culturali, non sempre positivi.


Quasi come se il tempo che ci hanno fatto risparmiare (ammesso sia vero: credete di avere tanto tempo libero?) fosse sprecato:


•Era il tempo che perdevamo a cercare un libro, una frase, un titolo, una citazione…

•Era il tempo che perdevamo a sfogliare un’enciclopedia,

soffermandoci su voci sconosciute.

•Era il tempo che passavamo in libreria per cercare un regalo.

•Il tempo che perdevamo sbagliando strada e scoprendo luoghi inaspettati.

•Il tempo sprecato con un viaggio in treno per andare in un altro paese,

finendo per conoscere viaggiatori interessanti, vedere luoghi incredibili dai finestrini, leggere libri o scrivere. (Esperienze difficilmente replicabili con Ryanair, che ci fa risparmiare risparmiando sui lavoratori e offrendoci viaggi tutt’altro che memorabili).

•Era il tempo buttato nell’esplorazione di fumetti usati

tra i quali ci capitava di trovare meraviglie e tesori nascosti…

•Era il tempo che si sprecava per sbagliare. E imparare.

•Il tempo sprecato a cercare e meravigliarsi.


Insomma: questo sistema ci sta portando inevitabilmente alla morte della curiosità (da sempre motore di scoperte) fornendoci risposte inutili a domande che non abbiamo neppure posto.

Ci offre Apps o elettrodomestici più economici ma a scadenza breve, impossibili da riparare, pena la perdita di tempo o soldi.

Ci offre “cose” come risposte a bisogni che ci inducono le cose stesse, in quanto risposte insoddisfacenti (Un sistema economico che ricalca il marketing della droga è estremamente vantaggioso: creare tossicodipendenti dando loro momentanee soddisfazioni che lasciano subito spazio a nuovi vuoti e insoddisfazioni): Piccole anestesie a portata di mano. Che siano pacchetti di figurine, smartphone o saghe di libri mal scritti o serie tv, poco importa…


Non è il tempo perduto che ci deve preoccupare ma la ricerca di quello da perdere.


“Dobbiamo riappropriarci del nostro tempo” Esorta Seneca nella sua prima lettera a Lucilio: “Convinciti che le cose sono come ti scrivo: una parte del tempo ci viene strappata, un’altra sottratta, un’altra ancora scorre via. Più turpe di tutte è tuttavia la perdita che avviene per nostra negligenza e se vorrai fare attenzione, gran parte della vita sfugge nell’agire male, la maggior parte nel non fare niente, tutta la vita nel fare altro.”…


Cosa penserebbe Seneca del tempo che ci viene occupato con i video di gattini?



5. PERDERE TEMPO CON I LIBRI


L’ambiente culturale che permette tutto quello che ho descritto in precedenza è un ambiente nel quale la scelta di leggere (o realizzare) libri di un certo tipo sembra fuori dal tempo, poco funzionale, antieconomica, una perdita di tempo, appunto.

I libri invece, la lettura, pretendono il tempo che noi scegliamo di dare loro.

E i libri -di solito quelli validi- ci fanno porre delle domande. Quelli che pretendono di darci risposte sono i manuali (e di solito non ci soddisfano, soprattutto quelli di auto-aiuto).

I libri non sono quasi mai comodi e non ci lasciano quasi mai come gli stessi che eravamo prima di leggerli.

Credo che, in generale, sia questo l’effetto (se non una delle funzioni) dell’arte che valga qualcosa: trasformarci, dotarci di un’arma in più, affinarci i sensi per riuscire ad andare al di là dell’apparenza e dare un qualche senso al tempo che trascorriamo da queste parti.


Questo per quanto riguarda il “Perdere tempo leggendo libri”.

E per quanto riguarda il “fare libri”? Anche in questo caso c’è modo e modo di sprecare il proprio tempo: si tratta di decidere se investire il proprio oppure sprecare quello degli altri.


Sentire degli editori che non curano bene il loro lavoro perché “cosa vuoi che gliene freghi ai lettori del tipo di carta o di una copertina curata?” È un dolore per me: significa che hanno rinunciato a una parte di loro stessi. Significa che hanno rinunciato a fare delle scelte, che non rispettano né autori né lettori. Attendendo una dimostrazione che dei libri fatti male vendano per forza di più di quelli fatti bene, rimane che una persona che forse ha scelto di fare un lavoro perché amava i libri, ora ha rinunciato e si muove per inerzia e busta paga. Piuttosto triste: ci sono lavori che, se fatti male, renderebbero molto di più.


Un editore che sfrutta il lavoro degli altri tirando eccessivamente sul prezzo delle illustrazioni (o delle traduzioni, o del lavoro grafico) promettendoti fantomatici lavori ben pagati in futuro (che sicuramente darà ad altri giovani inesperti sottopagandoli) costringe illustratori, traduttori e grafici a fare il lavoro in fretta e male, senza “Perdere tempo” con inutili attenzioni perché bisogna trovarne presto altri, di lavori mal pagati. La faccenda dello sprecare il tempo degli altri è un virus che si trasmette facilmente.


Allo stesso modo i grandi editori che fanno uscire un titolo dietro l’altro, senza curarsi di che fine facciano i loro libri (che richiedono parecchie cure anche dopo la loro nascita, non solo prima) giustificandosi col fatto che non si possa “perdere tempo” dietro a ogni titolo, mi pone dei seri dubbi sul come e il perché si voglia continuare a lavorare nell’industria culturale se dà così poche soddisfazioni. Forse sperano che -per qualche incidente indipendente dalla loro volontà- tra tutti uscirà un bestseller? Mi ricorda un po’ l’eleganza della pesca con la dinamite.


Se davvero uno dei problemi -come dicono gli editori- è quello dei distributori che fanno il bello e cattivo tempo e divorano la maggior parte dei ricavi, significa che c’è un problema da risolvere, non che lo debbano pagare i più deboli (si chiama bullismo, questo).

Parlo di editori per esperienza diretta ma quello di far pagare agli anelli più deboli il prezzo di politiche di vendita aggressive si estende a tutti i settori. Quindi anche su questo ce ne sarebbero di domande utili da fare…


Non rincuora neppure sapere che i distributori, tranquilli e beati coi loro monopoli, verranno spazzati via entità più grandi e prepotenti -vedi Amazon-. È successo con le case discografiche, le agenzie pubblicitarie e tutti quei dinosauri enormi e lenti che pensavano di poter vivere per sempre nello stesso territorio.

Ma in un sistema che si basa unicamente sul profitto non ci si può aspettare altro che il più forte prevalga. È una banalità. Sta a noi porci le domande giuste per resistervi e decidere che no, noi non siamo così.


All’opposto conosco editori (di solito piccoli) che invece scelgono di fare il loro lavoro come piace a loro (il che non vuol dire pubblicare libri che piacciono solo a loro), compiendo delle scelte e pagando il prezzo di questa libertà “sprecando” il loro tempo perché lo amano. Sanno che non li renderà straricchi ma -allo stesso tempo- sanno che prendersi cura dei loro libri -e di chi ci lavora attorno- è la cosa giusta da fare. Ne va della loro serenità e sanità mentale.

Allo stesso modo credo che una persona che sceglie di fare un lavoro come il mio, con tutte le fatiche e le difficoltà del quotidiano, debba tentare di farlo senza inseguire questo o quest’altro “trend” o inseguendo sempre compromessi al ribasso: verrebbero a mancare le basi di una scelta -a volte masochista- del genere. Come ho già scritto: esistono lavori che, se fatti male, rendono infinitamente di più.


Ognuno allora deve prendersi le proprie responsabilità, ponendo le domande a sé stesso sul senso del proprio lavoro e di come intenda portarlo avanti.


Per questo ho deciso di non sprecare il mio tempo per rispondere alle vostre domande ma di sprecarne il triplo a spiegarvi il perché non l’ho voluto fare.


Grazie,

Peppo Bianchessi