8-FUTU®I





Spuntini finali





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Questo è un lavoro in corso. Riguardando l’attualità, sono sicuro si svilupperà in altre forme.

È bello avere progetti ed è bello mantenere un po’ di mistero.

Aprire un libro è come aprire una porta. In questo caso quella del mio studio, o della mia testa: a livello di caos si equivalgono.

È bello curiosare (tra le pagine di un libro, non nella mia testa).

A proposito: è un lavoro nato in pieno trasloco e probabilmente risente di questo. Sicuramente mi sono scordato di ringraziare qualcuno o inserire qualcosa di importante che ho lasciato in uno degli scatoloni (punteggiatura compresa temo). Me ne scuso; è bello e faticoso cambiare.

Più che per sottrazione, nelle mie opere lavoro per “disidratazione” (o distillazione avrebbe detto mio padre). Prosciugo l’argomento e, quando sono pronte, so che è necessario esporle a uno sguardo che le re-idrati perché “sprigionino” i loro contenuti.

So che la metafora delle minestre in polvere non è un granché -difficile trovarne di buone- ma è funzionale: gli artisti possono solo produrre scintille. Sta agli altri, con il loro combustibile, decidere cosa farne.

È bello usare metafore bizzarre e futuriste.


Le esperienze da illustratore e pubblicitario mi portano ad utilizzare di volta in volta e senza pregiudizi gli stili e tecniche che ritengo opportune ad esprimere il messaggio e in questo caso, parlando di tecnologie, ho mischiato tecniche tradizionali con quelle digitali senza preclusioni neppure verso quella che chiamano “intelligenza” artificiale e che dovrebbe sostituirci, secondo molti.

È bello esplorare e conoscere le cose: la paura passa più facilmente.


Molti credono alla frase fatta sull’immagine che varrebbe mille parole. La questione, per me, non è la quantità di parole che potrebbe valere ma la conoscenza delle stesse da parte di chi produce le immagini e chi le guarda. La capacità di mettere assieme queste parole, di elaborare un pensiero complesso, dipende anche dal tempo che scegliamo di dedicare a queste attività: riflettere, osservare.

È bello prendersi il tempo che serve.

Meno bello è quando il tempo ti viene rubato.


Questo è il punto fondamentale che lega i lavori e le riflessioni in questo libro: il tempo e la percezione dello stesso che, a causa di una cattiva impostazione e gestione della tecnologia, ci sta cambiando profondamente. La tecnologia, attraverso narrazioni fatte di termini positivi come Efficienza, Velocità, Performance e Progresso, è diventata una sorta di nuova ideologia nelle mani di una gestione puramente commerciale, mantenendo però nell’immaginario comune la sua aura “magica” di neutralità.

In sintesi: non è neutrale una tecnologia così pervasiva, programmata per creare dipendenza da strumenti chiusi, legandoci a un brand, appropriandosi dei nostri dati e sfruttandoli, offrendoci risposte immediate e personalizzate con algoritmi che si basano sulle nostre abitudini (rendendoci difficile scoprire cose nuove) ma, soprattutto, facendo credere agli utenti che tutto ciò sia essenziale e indispensabile, pena momenti di noia e insofferenza nel mondo reale.


L’ambiguità nasce dal fatto che tutto ciò sta avvenendo a piccoli passi da più di un decennio e col nostro consenso. Volete un biscottino? È questo che simpaticamente vi chiede ogni sito che visitate.


Ora cominciamo a vederne le ripercussioni sulla società e nelle nostre vite individuali, soprattutto nei nativi digitali: le statistiche ci rivelano un consumo enorme di tempo, di energia e di attenzione da parte degli utilizzatori. Ma questi sono solo dati che da soli -se non ci prendiamo tempo per interpretarli e rifletterci, appunto- non ci danno idea delle conseguenze di tutto questo: a chi o cosa sottraiamo la maggior parte di quel tempo che usiamo online? Preoccupandoci meno di ciò che ci circonda, non lasciamo forse che questo peggiori, creando così un circolo vizioso dove, peggio andranno i rapporti con gli altri e il mondo stesso, più sentiremo il bisogno di rifugiarci nella rete?


Eppure è bizzarro che si continui a percepire e che ci venga venduta la tecnologia come un modo “per risparmiare tempo” quando, parallelamente, sentiamo di averne sempre meno. Difficile accorgersi che la nostra clessidra ha una falla, se perde solo un granello di sabbia alla volta.


Per la prima volta assistiamo a una disponibilità enorme di informazioni ma contemporaneamente alla sottrazione del tempo per elaborarle, soprattutto ai più giovani.


Insieme al tempo ci vengono imposte anche determinate modalità di comunicazione, sempre in nome dell’efficienza e velocità: meno parole e più icone, meno concetti e più meme (che dovrebbero valere 1000 parole, appunto). Questa semplificazione estrema del linguaggio, banalizzando la comunicazione, è l’opposto della sintesi piena di significato degli aforismi, degli haiku o della pittura Zen (cose alle quali aspiro, nonostante le apparenze).


Insomma: conoscere tante parole -e saperle mettere insieme- significa nella maggior parte dei casi comprendere le sfumature e la complessità di noi e del mondo che ci circonda, significa crescere e avere gli strumenti per elaborare le informazioni e per affrontare, per esempio, cose che ci “lasciano senza parole”.


Privandocene, non solo non possiamo godere appieno del mondo ma possiamo diventare ostaggi di chi le parole magari le conosce e decide di usarle contro di noi, diventiamo indifesi come chi -naturalmente- le parole non le conosce ancora: torniamo bambini, in qualche modo. E come esprimono il loro disappunto o disagio i bambini? Strillano, sbattono e rompono le cose finché non riescono ad esprimersi con le parole che gli vengono insegnate.

Ma cosa succede quando sono i “grandi” a non avere le parole o a decidere che non servono o che non hanno il tempo per rifletterci? Strillano, sbattono e rompono le cose ma con risultati peggiori: diventano violenti, fanno guerre, distruggono.

Se un politico parla per slogan, adattandosi alle modalità dei Social, fa propaganda senza aiutare le persone a comprendere i problemi. Può alimentare sentimenti odiosi con poche parole, rozze e reiterate. Coltiva la stupidità.


Se una persona è incapace di elaborare ed esprimere un dolore, una frustrazione, spesso ricorre alla violenza verso sé stessa o gli altri. Noi siamo così ostaggi di questi meccanismi fatti di reazioni immediate e non meditate che abbiamo cominciato a spostare le stesse modalità nella vita reale: stiamo diventando quelli che sparano e poi chiedono, insomma.


Per questo ho chiamato questa mostra Futu®i. Perché qualcuno pretende di averli già registrati appropriandosene, e noi glielo abbiamo concesso come se il commercio di qualunque cosa fosse l’unica prospettiva possibile alla quale aggrapparsi. Io ho solo provato a renderli “manifesti”. Si possono fare moltissime cose ponendosi delle semplici domande. Riflettendo sulle nostre azioni e rifiutando questa logica della tecnologia (non la tecnologia in sé) che ci impone come usarlo,


riprendiamoci la possibilità di scelta e cominciamo a riappropriarci del tempo. Ci appartiene. È prezioso e speciale se noi lo rendiamo tale e spetta a noi scegliere come occuparlo o perderlo. Essere gentili. Scegliere di regalarne anche agli altri, per esempio, non è mai tempo perso. È bello.

Guadagnare, perdere, usare, dedicare, trovare, avere tempo. Vi ringrazio se avete preso del tempo per leggermi fino a qui.


Peppo